“I numeri dicono tanto”. Con questa frase, il docente di sceneggiatura Andrea Garello, introduce una nuova lezione al Master in cinema e televisione, presso l’università Suor Orsola Benincasa. “L’incasso al botteghino – spiega lo sceneggiatore – e il numero delle sale in cui è distribuito un film, dicono molto di esso. Per esempio, ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’ è un film ‘romanocentrico’, in cui i protagonisti parlano continuamente con un accento romano, e infatti, in questo caso specifico, la distribuzione al Nord è risultata quasi nulla”. Ecco come lo sceneggiatore di “Smetto quando voglio” risponde ad alcune domande degli allievi sul tema del successo al botteghino.
Cosa ne pensa di opere come “Il primo re” di Matteo Rovere?
“E’ un film interessante. Certo, difficile che un produttore finanzi un progetto come ‘Il primo re’ o, appunto, ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’. Fortunatamente sia Rovere che Mainetti (il regista di ‘Jeeg Robot’, ndr) hanno avuto le possibilità di essere produttori di sé stessi, altrimenti ora non staremmo qui a parlare di due film originali e ben riusciti”.
Questi due film possono essere un buon esempio per il cinema italiano contemporaneo?
“In realtà l’originalità di questi due film è inversamente proporzionale alla loro influenza sul cinema italiano. Ciò tuttavia non deve precludere a uno sceneggiatore la strada dell’originalità. Per dirne una, ho provato a raccontare di tutto. Ultimamente ho scritto perfino una storia su un angelo custode: guarda caso, per alcune divergenze produttive il progetto non ha fatto molta strada. Diciamo pure che a qualche produttore ‘piacerebbe’ inserire nei propri film l’humor nero o le tinte più forti, ma poi, quando gli si presenta una sceneggiatura con quelle caratteristiche, ti dice che i distributori avrebbero problemi a collocare il film, ti dicono che forse alcune cose andrebbero tagliate e così via. L’Italia che fa cinema, purtroppo, è ancora prigioniera di alcune gabbie”.
Di quali gabbie parla?
“Parlo di gabbie creative. Facciamo un paragone con gli sceneggiatori americani: dal giorno 1 della scrittura di un film, sono liberi di scrivere di qualsiasi cosa, dal super-eroismo, ai viaggi nel tempo, fino alle avventure nello spazio. C’è da chiedersi perché noi italiani dobbiamo porci limiti di scrittura. Perché noi Italiani pensiamo di non poter raccontare storie di supereroi ogni anno? Perché non possiamo inventare interi universi narrativi? Mediamente uno sceneggiatore americano è più bravo di uno sceneggiatore italiano. Come mai? Perché è libero da qualsiasi gabbia narrativa. Il mio suggerimento? Quando scrivete, non ponete limiti alla vostra fantasia”.
Paolo Torino